lunedì 10 gennaio 2011

BARBA NANI


Giovanni, detto Barba Nani, era nato l’11 di luglio del 1909 a Noal, piccola località rurale nel comune di Sedico in provincia di Belluno. Da quel posto Nani non si allontanò mai per più di cinque chilometri, più o meno la distanza che lo separava dalla latteria del paese dove, tutti giorni, portava il latte delle sue mucche per farne burro e  formaggio.
L’unica volta che fu costretto ad abbandonare quella zolla di terra fu nell’ottobre  del 1999 quando lo portarono all’ospedale di Belluno causa un ictus cerebrale.
Vide per la prima volta in vita sua un ospedale e morì, portando con sé il segreto di dove avesse nascosto 25 anni di pensione.
Nani non si fidava delle banche. Nossignore! Lui era della vecchia guardia. I soldi li nascondeva sotto il materasso, sotto le assi in legno del fienile. Nell’agosto del 1995, il figlio Bruno, mentre aiutava il vecchio padre a liberare lo scantinato da alcune vecchie botti ormai divorate dai tarli, notò una vecchia busta avvolta in vari strati di cellophane. La aprì e vi trovò 37 milioni in vecchie lire, molte delle quali così datate da essere ormai irrimediabilmente fuori corso. In quel weekend di ristrutturazioni domestiche Bruno trovò altri tre plichi, uno dei quali contenente un centinaio di banconote da 50.000, quelle con l’effige di Leonardo Da Vinci, nascosto nella cappa di aspirazione del camino.
Bruno, che dal vecchio non aveva mai ricevuto un centesimo e a 14 anni era stato costretto a mollare la scuola per andare a gudagnarsi il pane come manovale nei cantieri in Svizzera, con le lacrime agli occhi consegnò al padre quella piccola fortuna dimenticata e ormai inspendibile digendogli:
“Con questi comprete el paradiso, perché agli spilorci, almeno coi mor, ghe toca pagar per non andar all’inferno.[1]” 

Nani era un taccagno, ma di una taccagneria giustificabile che dal suo punto di vista altro non era che parsimonia. Alla fame aveva dato del tu. Probabilmente, fino alla fine dei suoi giorni, si portò dentro la paura che quei periodi di magra, dove per sfamarsi andava a rubare le ghiande ai maiali nella stalla, potessero tornare.
Per lui era importante immagazzinare le fonti di sostentamento sia che si trattasse di pannocchie o di fagioli, sia che si trattasse di cartamoneta.
Nani era un duro. Alto un metro e settantacinque, magro, nervoso, dai tratti spigolosi segnati da profonde rughe. Per tutta la vita coltivò la terra. Morì senza mai aver fatto altro. In novant’anni non si perse un’alba e andò sempre a dormire lo stesso giorno in cui si era alzato. 
Nani non sopportava i preti e in chiesa ci mise piede solo per il suo matrimonio, il battesimo e la prima comunione dei due figli e per il suo funerale. Ai funerali degli altri non presenziava. Preferiva dare licenza per mezza giornata alla Maria, sua moglie, pur di non doversi trovare di fronte ad una bara. Nani temeva la morte e non voleva vederla da vicino. Però temeva Dio, anzi, ne temeva tanti. Il dio del gelo che d’inverno si intrufolava fra le crepe dei muri di pietra della casa e faceva batter i denti per il freddo; il dio della brina che a primavera bruciava i fiori degli alberi da frutto; il dio della grandine che devastava il campo di granoturco e rovinava irrimediabilmente i racemi delle viti. Per questo una volta l’anno, in occasione della benedizione delle case e dei campi, tollerava la presenza del parroco e di un paio di chierichetti sulla sua proprietà. Qualunque cosa fosse Dio e in qualsiasi forma si manifestasse era meglio non inimicarselo troppo. Il parroco solitamente approfittava di queste occasioni per farsi allungare un paio di ombre[2] di vino e talvolta ci scappava pure l’invito a pranzo. Ma Nani, in maniera assai sbrigativa, era solito liquidare il religioso intento a dispensare acqua santa sulle messi e sugli armenti con la frase: “Avanti col Cristo che se ingruma la procession.[3]

Nani era mio nonno e io gli volevo bene.
  
Poco importava se era mal visto da tutti da tutti soprattutto in famiglia; su di me il nonno esercitava un fascino irresistibile. Da bambino, durante i periodi di vacanza, inforcavo la bicicletta e dopo aver scavallato un paio di colli per stradine di campagna arrivavo a casa sua ben determinato ad estorcergli i segreti del mondo fiabesco che solo lui conosceva.    

Nani non aveva visto nulla del mondo, era riuscito anche ad evitare il servizio di leva ricorrendo ad uno di quei metodi artigianali e un po’ terrorizzanti che i capi famiglia usavano, a quei tempi,  per evitare che due braccia in grado di zappare la terra finissero per 18 mesi al servizio delle regie truppe di Vittorio Emanuele. A meno di non essere orfani di guerra od omosessuali il modo migliore per risultare non idonei alla visita di leva era quello di presentarsi con una qualche menomazione fisica invalidante. Nani ben spalleggiato dal padre Giuseppe ricorse alla mandragola[4]. Per tutto il mese precedente la chiamata alle armi dormì con due radici di mandragola ben fissate alle ginocchia con delle bende di canapa. Quando si presentò al distretto militare le ginocchia erano così gonfie da sembrare due meloni. Schivò le armi, ma i dolori cronici alle gambe non lo abbandonarono più e passò sessantanni a maledire tutti i santi del paradiso per aver permesso ad una pianta immonda come la mandragola di crescere su questa terra.
Benché il suo universo fosse delimitato a Nord dal col Zeon, a sud dal torrente Gresal, a est dal bosco di Poian di proprietà dei conti MiariBebi Sponga, odiato confinante col quale aveva in atto una disputa pluridecennale per via di alcuni confini non ben delimitati, Nani aveva costruito una sua mitologia su quei tre ettari di colline calcaree. A sentir lui pareva che quello fosse il centro dell’universo, la culla di tutto e alla quale tutto poteva essere ricondotto. Inoltre Nani, pur avendo frequentato solo la seconda elementare, le storie le sapeva raccontare bene, con la giusta enfasi e quel dosato apporto di fanfaronate che sapevano catturare l’attenzione, soprattutto quella di un bambino come me.

Tra i suoi racconti preferiti alcuni sbalordivano per la loro apocalittica drammaticità. La grandinata del '62, ad esempio, diventava la grandinata del secolo; una calamità biblica di proporzioni immani e con effetti nefasti. Il nonno raccontava che tale era stata la furia degli elementi, che sul grande castagno che stava dietro la stalla non rimase neppure una foglia e che un chicco di tempesta, grande quanto una mela cotogna, riuscì a freddare all’istante una coniglia che non era riuscita a trovar rifugio in tempo nella stalla. Ma la cosa assolutamente più stupefacente fu il ritrovamento di un capriolo, stecchito dalla violenza del fortunale, le cui carni erano state così selvaggiamente ammorbidite da quella gragnuola di proiettili di ghiaccio, che per farlo in salmì non fu necessario farlo frollare nemmeno per un giorno. “L’era tendro come el butiro.[5] era solito chiosare Nani.

In assoluto però i miei racconti preferiti erano quelli che riguardavano i serpenti che mio nonno si vantava di saper catturare a mani nude, afferrandoli con fulmineo gesto appena dietro la testa tenendoli ben saldi con il pollice e l’indice. 
A parlar di serpenti Nani dava il meglio, soprattutto se aveva esagerato con il Clinto[6].

Un pomeriggio di giugno, mentre rientravamo dai campi, passammo vicino al vecchio abbeveratoio in pietra. Nello scolatoio un nero esemplare di biacco maggiore se ne stava raggomitolato, sornione, scaldandosi al sole. Nani lo adocchiò e fu subito pervaso dal sacro furore della caccia. Brandendo il forcone si lanciò verso il sonnacchioso serpente urlando: “Il carbonaz[7]! Il carbonaz! Ciapelo! Ciapelo[8]!” Io, terrorizzato, rimasi lì immobile. Paralizzato da un terrore indicibile. Il rettile era lungo circa due metri, ma a me sembrava enorme. Un’anaconda, un mostro marino, un drago mangiauomini a guardia di chissà quale tesoro. Nani, folle per l’eccitazione, mi incitava a seguirlo: “Movete! Movete ziocan! Ciapelo! Ciapelo! Zioporco! El carbonaz! El carbonaz!”
Io pietrificato riuscii a malapena a frignare “La bissa! La bissa!”
Il primo attacco del nonno si risolse in un nulla di fatto. Il serpente, si scosse improvvisamente dal suo apparente torpore e lesto si infilò nel tubo di scarico dell’abbeveratoio. Il forcone colpì le pietre emanando scintille. Nani maledisse una mezza dozzina di santi, il papa, la maria vergine e il suo povero padre poi si girò verso di me e ringhiando disse: “Vien qua!”. 
“No nonno, ho paura! La bissa! La bissa! Ho paura!”
Nani piantò il forcone per terra, estrasse la scatoletta di tabacco da fiuto che teneva sempre in tasca, il suo unico vizio, l’aprì, col pollice e l’indice prese un po’ di tabacco, lo stese sul dorso della mano e lo inalò con un movimento rapido del naso. Sputò per terra e poi tuonò: “Sito an omo o an conicio[9]? Ziocanarin! Vien qua che senò el carbonaz el scampa.” In quel momento mi misi a piangere, piantai i piedi, urlai, tanto era il terrore che provavo nei confronti della strisciante biscia. Nani allora si avvicinò, mi mise un po’ di tabacco sul palmo della mano e mi incitò: “Dai scarobola[10], fate un bel tiro che te passa la paura.”
Inalai il tabacco e stranutii una, due, tre volte. Mi asciugai le lacrime e brandendo il mio piccolo rastrello come se fosse un’alabarda mi avvicinai cautamente alla tana del mostro. Il piano del nonno, per stanare la bestia, era semplice e all’apparenza privo di rischi per il sottoscritto. Dato che il biacco si era rifugiato nel tubo di scolo che sfociava, dopo un percorso di circa 3 metri, in una cunetta a lato del sentiero, io dovevo semplicemente introdurre il manico del rastrello nell’apertura del tubo e stuzzicare l’animale che sarebbe uscito all’altro capo del condotto, dove ad attenderlo c’èra Nani e il suo letale forcone. 
Mentre spingevo il rastrello sempre più in profondità, potevo sentire il biacco soffiare minaccioso, palesemente irritato per tutto quell’affanarsi di bipedi intorno a lui. Poi, d’improvviso, un nero lampo squamato uscì dal tubo. Dalla parte sbagliata ovviamente.
Il maledetto serpente si era attorcigliato al manico del rastrello e quando me lo vidi a 20 cm dalla punta del naso, aprì la bocca e soffiando esplorò l’aria con la lingua biforcuta.
“La Bissaaaaaaaa! Ahhhhhhhh la bissaaaaaaaaa! Aiutoooo la bissaaaaaaaa!” In preda ad un folle terrore alzai in alto il rastrello e  iniziai a correrre in direzione di casa. Tanta era la paura che non riuscivo a staccare  le mani dal’attrezzo, quasi che il manico fosse attraversato dalla corrente elettrica. L’adrenalina mi aveva messo le ali ai piedi. Come un piccolo bersagliere pazzo con il suo sibilante vessillo diretto verso le linee nemiche avanzavo urlando nell’erba alta.

Nani perplesso riguardo all’esito dell’appostamento, non potè far altro che notare il nipote sopraffatto dalla fifa fuggire a rotta di collo per i campi, portando con sé  il colubro attorcigliato al manico del rastrello. “Ferma zioboia! Fermaaaaa! Zioserpente! Fermaaaaaaaaaaaaaaaaa!”. Alla fine incespicai in una grossa pietra usata per delimitare i confini del fondo e cadendo mollai la presa. Appena toccò il suolo l’ofide non perse tempo a dileguarsi, infilandosi in una buca del terreno. Prima di infilarcisi strisciò vicino alla mia faccia e mi lanciò un ultimo rancoroso sguardo con le sue sinistre gialle pupille simili ad una falce.

Singhiozzante, faccia terra, sputavo l’erba fresca che avevo ingollato e, vergognoso, attendevo l’inevitabile rimbrotto del nonno.
Con un’agilità insospettabile visti i suoi 70 anni, Nani mi raggiunse in fretta e dopo avermi afferrato per la cintura mi sollevò da terra. Mi scannerizzò con uno sguardo severo dalla testa ai piedi e poi scoppiò a ridere. “Cosa atu in quela testa? Gardus? Te me parea un de quei mat che sbareghea al manicomio[11]. Poi, dopo avermi tolto il terriccio che avevo in faccia con un fazzoletto, mi restituì il rastrello e disse “Ndemo a casa vecio, che la Maria stasera la ha preparà le tegoline in tecia[12].”

Inutile aggiungere che a cena non si parlò d’altro che del tentativo di cattura del biacco che nel frattempo era diventato IL BIACCO, quello supremo, il re dei serpenti. Nonna Maria, ormai avezza a tali meraviglie, ascoltava in silenzio dispensando fagiolini, formaggio e fette di salame spesse due dita al vecchio cacciatore di draghi e al giovane intrepido scudiero.

Nani non era abituato ai cambiamenti se non a quelli lenti e monotoni dettati dal cambio delle stagioni. Nella sua vita, così come nella sua casa, tutto era rimasto immutato per decenni e nulla doveva essere modificato. L’unico lusso tecnologico che si era concesso fu una radio a valvole con la cassa in legno della Geloso. Non so in che anno la comprò ma io ricordo di averla sempre vista lì, sulla credenza, coperta da un canovaccio. La radio veniva accesa insindacabilmente solo alla sera per ascoltare il radiogiornale e la domenica pomeriggio in occasione di Tutto il calcio minuto per minuto. Nonna Maria aveva la deroga di poterla accendere la domenica mattina per ascoltare la Santa Messa.
Nel 1990 mio zio Pietro, credendo di fare cosa gradita,  gli regalò un televisore a colori in modo che il vecchio avesse modo di guardare le partite dei mondiali di calcio che si disputavano in Italia. Nani disse che di quell’aggeggio non sapeva che farsene e che di pagare il canone alla Rai non se ne parlava proprio. In quel periodo mi stavo godendo le mie ultime vacanze prima di trasferirmi all’università di Bologna e casa del nonno era sempre un porto franco dove poter fuggire dalle sgrinfie di una madre troppo apprensiva. La bicicletta era stata sostituita da un Ciao Piaggio con marmitta truccata. Convinsi Nani a guardare con me
Un mediocre Italia Austria, match risolto al 79° della ripresa con un gol dell’appena entrato Schillaci. Nani rimase in silenzio fino al momento del goal, ma alla vista del picciotto palermitano che beffava gli odiati austroungarici balzò sulla sedia esclamando “Goool! Ziobonoo! Gooool! Daghe al todesc![13] In seguito raccontai al nonno la leggenda di Totò Schillaci che prima di diventare giocatore di calcio rubava le gomme delle auto a Palermo e per questo motivo ogni volta che scendeva in campo i tifosi avversari e non solo lo accoglievano con il coretto “Totò ruba le gomme!”.
Era la prima volta che raccontavo io una storiella a Nani e lui sorridendo alla fine disse: “Anca se l’è un teron al deve eser an omo in gamba[14]. A ottant’anni divenne un drogato di televisione, un forsennato dello zapping, un profondo conoscitore dei palinsesti televisivi. Non riuscirò mai a capire fino in fondo il motivo ma le telenovelas sudamericane avevano catturato completamente la sua attenzione. I ritmi della fienagione, della raccolta dell’uva, dell’abbeveraggio delle mucche, erano ormai vincolati alla programmazione televisiva. Mentre guardava una puntata di Topazio con Grecia Colmenares o di Rosa Selvaggia con Veronica Castro, Nani esigeva lo stesso religioso silenzio che fino a pochi mesi prima bisognava osservare durante la trasmissione del giornale radio della sera. La Maria alla fine finì con l’affezionarsi pure lei a quelle sceneggiate iperbolicamente melense anche se preferiva di gran lunga i varietà del sabato sera, specialmente se conodotti da Corrado. Una sera, di ritorno da una scorribanda ad una sagra di paese con gli amici, vidi che la luce della cucina era accesa. Entrai in casa e trovai Nani ancora alzato. Cosa assai strana visto che le le nove, orario in cui di solito andava a letto, erano passate da un pezzo. Appena mi vide mi chiamò a sé con fare complice. “Fabio, vien qua che fae veder na bela roba[15].” Mi accostai a lui e capii che stava guardando una puntata di Colpo Grosso, il  noto quiz erotico trasmesso da Italia 7. In quel momento le ragazze cin cin, rigorosamente in topless, cantavano gioiose una canzoncina accompagnate al piano da un già imbolsito Umberto Smaila: “Cin cin fruttine prelibate. Cin cin assaggia e poi mi dici. Cin cin ricoprimi di baci.”
Guardai Nani fra l’imbarazzato e il divertito ma prima che potessi dire alcunché lui mi afferrò per un braccio e continuando a guardare il televisore disse: “Fabio… me racomando! No sta mia  dirghelo alla Maria. Perché la è gelosa![16]
  



[1] “ Con questi ci puoi comprare il paradiso, perché gli spilorci, almeno quando muoiono, devono pagare se non vogliono andare all’inferno.”
[2] Bicchiere di vino.
[3] “Avanti con il crocefisso che si rallenta la processione.”
[4] Mandragola è il nome comune di diverse piante del genere Mandragora appartenenti alla famiglia delle Solanaceae. Le loro radici sono caratterizzate da una peculiare biforcazione che ricorda la figura umana (maschile e femminile); insieme alle proprietà anestetiche della pianta, questo fatto ha probabilmente contribuito a far attribuire alla mandragola poteri sovrannaturali in molte tradizioni popolari.
[5] “Era Tenero come il burro.”
[6] Il Clinto è un vino aspro e dall’intensa colorazione violastra dovuta all’elevata tannicità degli acini delle uve da cui è ricavato.
[7] Carbonaz è il nome dialettale che si da al biacco maggiore per il fatto che con l’età tende ad acquisire una pigmentazione scura, come il carbone.
[8] “Prendilo! Prendilo!”
[9] “Sei un uomo o un coniglio?”
[10] Carruba,
[11] “Cos’hai in quella testa? Maggiolini? Mi sembravi uno di quei matti che sbraitano al manicomio.”
[12] “Andiamo a casa, vecio che la Maria ha preparato i fagiolini in teglia.”
[13] “Dagli al tedesco!”
[14] “Anche se è un meridionale deve essere una persona in gamba”
[15] “Fabio vieni qui che ti faccio vedere una bella cosa”
[16] “Fabio… mi raccomando! Non dirglielo alla Maria. Perché è gelosa!”

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